Locale al chiuso? No, grazie!

di Roy Batty |  Benvenuti nel paese dei controsensi! Un’altra lunga estate è finita.

E direi, “menomale” per le finanze dei locali notturni. Sto parlando dei veri cocktail bar, i locali notturni delle città, tanto frequentati durante le altre stagioni, ma non d’estate.

Perché non sia mai che l’italiano medio decida di bersi un drink fatto a regola d’arte al chiuso, in un cocktail bar climatizzato, godendo dell’atmosfera che solo un locale di questo genere è in grado di garantire.

No, l’italiano medio preferisce bere cocktail che normalmente non berrebbe mai, pur di stare all’aperto, seduto a un orribile tavolino in mezzo alla strada, al caldo.

Non gli importa più nulla della qualità, dell’atmosfera, dell’intimità.

È come se il cervello, evidentemente affaticato dal caldo e dal pensiero delle tanto agognate ferie, ci facesse tornare al passato, a bere cose che non berremmo mai normalmente, come un Mojito o un Long Island, e ad accettare anche che questi terribili drink siano fatti male, se non malissimo.

Ho girato tanto in questa lunga estate ed è stupefacente costatare che non ci sia alcuna differenza fra una città e l’altra: i cocktail bar sono vuoti! Mentre, i locali che non trattano prodotti di qualità e sono la cosa più lontana dalla mixology che si possa immaginare sono strapieni di avventori. Com’è possibile?

Noi che siamo del mestiere pensavamo veramente di essere riusciti nell’ardua missione di inculcare nel cervello dei nostri clienti il concetto di cocktail e del buon bere.

Evidentemente non è così.

Perché, se anche quei clienti affezionati che vedi frequentare il tuo locale costantemente spariscono all’inizio di giugno e tornano matematicamente a metà settembre, significa che il bere bene non importa più di tanto nemmeno a loro e che sono più interessati all’atmosfera del locale.

Dove vanno nei mesi d’estate?

Poiché non credo possano permettersi tre mesi di vacanza, mi pare ovvio che scelgano locali in cui è possibile stare all’esterno. Così, magicamente, il bevitore di Manhattan, Martini e signature complessi, creati con le tecniche più raffinate, diventa consumatore di altro, magari uno Spritz o un Mojito, nel locale di massa che ha una bella distesa di tavoli all’aperto.

Questa cosa mi fa letteralmente impazzire.

Se voglio gustarmi un drink, anche se ci sono 42 gradi vado negli stessi posti dove bevo bene in inverno: posti al chiuso. E se questi hanno messo qualche tavolo fuori, decido comunque di stare all’interno.

Da dove nasce questo totale rifiuto per stare, in estate, in un locale al chiuso?

Se sono abituato a mangiare in un certo modo, non rinuncio alla qualità e, per stare all’aperto, scelgo di mangiare male per tutta l’estate! Eppure, per la miscelazione è così. Trovo inquietante che in questo settore al consumatore interessi evidentemente più il contesto che non il prodotto.

Ritorniamo, quindi, su un punto cruciale: è importantissimo educare il cliente, cercare di fargli comprendere che un cocktail bar non è un semplice bar.  Anche perché gli stessi clienti che frequentano locali all’aperto pur di non stare al chiuso, spesso, non fanno altro che lamentarsi della scarsa qualità di quello che bevono. Ma come fanno ad aspettarsi la stessa qualità in locali che servono, oltre ai cocktail, il gelato, la pizza, il sushi, la birretta, il Crodino e lo Spritz? Ovviamente, non possiamo fare di tutta l’erba un fascio, ma in generale è così.

C’è ancora parecchia strada da fare in Italia per rendere la miscelazione qualcosa di unico, da non confondere con tutto il resto. Basterebbe guardare un po’ di più a quello che accade all’estero, in particolare nel mondo anglosassone: qui è molto marcata la differenza fra un certo tipo di bar e un cocktail bar.  Sarebbe bello, prima o poi, riuscire anche nel nostro Paese ad avere una distinzione altrettanto chiara.


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