Nico De Soto: il cocktail come passaporto

di Niccolò AmadoriIl giorno in cui arrivai a New York, stanco, spaesato e con la solita valigia troppo pesante, uscii per puro caso da una fermata della metro nel cuore del Greenwich Village.

Alzai lo sguardo e me lo trovai davanti: Mace. Era un nome leggendario per me, uno di quei bar che studi sulle riviste e segui ossessivamente su Instagram e non avevo idea che mi sarei imbattuto proprio in lui, senza cercarlo. Ci entrai subito.

E da quel momento, non ne sono più davvero uscito.

Una personalità unica

Elegante ma accogliente, moderno ma pieno di storie, il Mace mi conquistò per il concept: un menu fondato sulle spezie. Ogni cocktail partiva da un singolo elemento, scelto e raccolto da Nico De Soto nei suoi viaggi in giro per il mondo.

De Soto ha visitato oltre 110 Paesi e lavorato in più di 55. Il suo percorso parte da Parigi passa per Melbourne, poi per New York, Londra, Singapore, Los Angeles, Miami. Dopo gli esordi nei classici bar francesi, entra nell’universo Experimental Cocktail Club, poi Dram e PKNY a New York.

Nel 2015 lancia, appunto, Mace, al quale seguiranno Danico a Parigi e altri locali, in Francia e in America. Tutti, però, con la stessa impronta: cocktail come cultura. Ogni drink, una geografia. Ogni ingrediente, un racconto.

Per lui le spezie non sono solo ingredienti, sono storie liquide. Il menù al Mace cambiava ogni sei mesi, come un nuovo capitolo di un diario di bordo. Ogni rotazione era una dichiarazione d’intenti, un invito a esplorare

Il mio drink preferito? Un twist su un Negroni, realizzato con un peperoncino originario del Mozambico: il piri piri. Un peperoncino intenso, pungente, ma con un profilo aromatico così complesso da sembrare quasi un profumo. Amaro, caldo, profondo. Come una conversazione che comincia con una provocazione e finisce con un abbraccio. La bevanda era trasparente, ma al palato esplodeva. Una di quelle esperienze che ti restano addosso per anni.

Ancora oggi, quel cocktail è una delle prime cose a cui penso quando qualcuno mi chiede: “Che cos’è per te la mixology?”.

Cocktail is culture

Lui non era lì quella sera. Anzi, per i primi mesi non lo vidi mai. Sapevo che era costantemente in viaggio. Quando finalmente lo vidi entrare nel bar mi tremavano le mani.

È sempre stato uno dei miei riferimenti assoluti in questo mestiere: era come se Thom Yorke fosse entrato nella mia stanza mentre suonavo la chitarra. Non fu una scena spettacolare: lui entrò in punta di piedi, osservò, assaggiò, fece due domande.

Ma ogni suo gesto aveva peso. E io imparai più in quei venti minuti che in mesi di letture. Nico non impone mai la sua presenza. Ma la sua presenza si sente.

Ha un modo di stare nel locale che è silenzioso e deciso allo stesso tempo. Non dà ordini, ma orienta. Ti senti osservato, sì, ma nel modo in cui un maestro osserva un apprendista: non per giudicare, ma per capire se hai capito.

Il suo processo creativo è meticoloso. Quando costruisce un menu, parte da un archivio sensoriale personale: spezie annusate in un mercato di Dakar, una marmellata assaggiata a Tbilisi, una fermentazione casalinga a Hanoi.

Prende un’idea e la distilla. Letteralmente. Ogni drink racconta un luogo, ma senza mai cedere all’esotismo da cartolina.

Non è mai un “mezcal & mango perché fa figo”, ma “questo ingrediente mi ha parlato e adesso ti racconto cosa mi ha detto”.  “Cocktail is culture” non è uno slogan, ma un metodo.  Per lui, il viaggio non è mai esibizione: è ricerca, ascolto, rispetto. Una spezia non si usa perché è rara. Si usa perché aggiunge senso. Le sue creazioni non hanno bisogno di effetti speciali: parlano piano, ma restano impresse.

Anche la tecnica, pur elevatissima, è invisibile: fermentazioni, chiarificazioni, infusioni, fat wash, low ABV, acid blends. Non ci sono drink costruiti per fare colpo su Instagram. Sono serviti come si serve un sushi perfetto: semplice all’apparenza, chirurgico nella costruzione.

Una fonte di ispirazione

E poi c’è la parte più difficile da spiegare: il ritmo. Il modo in cui Nico gestisce il tempo del bar. Tutto si muove, ma niente è frenetico. C’è una cadenza, quasi musicale. Ogni gesto è necessario. Ogni passaggio ha un perché. Non c’è mai spreco, né energia in eccesso. È una danza senza teatro. Se dovessi definire il suo stile in una frase, direi: “Minimalismo con memoria”.

Perché ogni suo drink è costruito con pochi elementi, ma dentro ha una densità di significati, di esperienze e di riferimenti che puoi assaporare soltanto se ti fermi ad ascoltarlo davvero. Mi ha insegnato che il cocktail è un linguaggio e che ogni bartender, se vuole davvero comunicare, deve trovare il proprio accento. Scegliere cosa dire e come. E poi farlo ogni sera,

davanti a sconosciuti che si aspettano qualcosa, ma non sanno ancora cosa. Nico non è mai stato solo un bartender. È un costruttore di lessici liquidi. E non si ferma mai: la sua identità non è una bandiera, ma una bussola. Ecco perché ogni volta che pensi di aver capito il suo stile, lui è già altrove, magari con in mano una radice mai vista prima, da cui nascerà il drink più buono che non hai ancora bevuto.


Nico De SotoChi è Nico De Soto

Nato e cresciuto a Parigi, Nico De Soto inizia a lavorare come barman nella capitale francese nel 2005, dove ha studiato l’arte dei cocktail classici. Nel 2007 si trasferisce in Australia, a Melbourne, dove rimane un anno prima di tornare a Parigi per lavorare al China Club e diventare poi bar manager al Mama Shelter. Successivamente entra all’Experimental Cocktail Club e al Curio Parlor. Nel 2010 Nico si unisce al team di apertura di Dram e PKNY (ex Painkiller) a New York, per poi diventare capo mixologist dell’Experimental Group, aprendo consecutivamente gli Experimental Cocktail Club di Londra e New York.

Nel 2015 apre il suo primo cocktail bar, Mace, nell’East Village di New York. Segue nel 2016 l’apertura del Danico, all’interno della Galerie Vivienne di Parigi. Nel 2018 ha inaugurato Kaido, un cocktail lounge di ispirazione giapponese, nel Design District di Miami, con lo chef Brad Kilgore. Mace e Danico sono entrambi nella lista dei 50 migliori bar al mondo. Tra le altre sue attività, il lancio del liquore Kota e di una linea di utensili a bar in collaborazione con il marchio Cocktail Kingdom.

È anche il co-fondatore dei famosissimi pop-up Miracle Cocktails.


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