di Luca Tesser | Su un terreno di quaranta ettari, ad appena 15 km da Los Angeles, alla fine del XIX secolo, Harvey Wilcox fondò Hollywood. Nemmeno lontanamente Wilcox poteva immaginare che cosa sarebbe diventata quella piccola cittadina che, all’inizio del Novecento, contava poco più di 500 abitanti. All’epoca a Hollywood viveva una comunità “colta, cristiana e astemia”.
Non c’erano, quindi, bar e la città era ben diversa da quello che, da lì a breve, sarebbe diventata: la capitale indiscussa del cinema, sede dei più famosi studi cinematografici del mondo – MGM, Paramount, Universal Pictures, Warner Bros – e luogo di ville, feste e locali alla moda. Da cittadina di contadini e allevatori, nel giro di due decenni Hollywood si trasformò completamente.
Fino ad allora, il cinema americano aveva sede nel New Jersey e fu il grande regista David W. Griffith a individuare in Hollywood un posto ideale dove girare film: il clima era fantastico in confronto a quello del New Jersey, gli spazi aperti non mancavano e i costi di produzione erano minori. Così, mentre Griffith, nel 1910, girava a Hollywood “Old California”, il primo film girato nella capitale del cinema, nel New Jersey il monopolio della Motion Picture Patent Company iniziava a sgretolarsi e molti registi si spostavano in California per i loro lavori.
Fu in questo periodo che, attorno a questa piccola cittadina, nacque una vera e propria economia del cinema, la base di quella che sarà l’industria cinematografica più importante al mondo. E insieme all’industria nacque il cosiddetto star system. Il cinema diventò in pochissimo tempo la forma di intrattenimento più seguita negli Stati Uniti e divi e dive della pellicola divennero le icone del proprio tempo.
Il cinema muto
La prima fase del cinema hollywoodiano risale al decennio tra il 1919 e il 1929. È l’epoca del cinema muto con star indiscusse come Charlie Chaplin e Buster Keaton, Tom Mix, il primo cowboy del cinema, Rodolfo Valentino e Gloria Swanson, la prima diva, Erich von Stroheim, maestro del genere drammatico.
Sono anche gli anni del proibizionismo e verrebbe da pensare che nelle produzioni cinematografiche il consumo di cocktail e alcolici debba essere bandito. Ma non è affatto così: nelle pellicole di Hollywood è frequente vedere attori che sorseggiano drink. Come dimenticare, nel film “The Rink”, Charlie Chaplin che prepara un cocktail mischiando ingredienti a caso, dando vita a una delle scene più iconiche del cinema legato al mondo del bartending.
Del resto, nonostante fosse illegale, il consumo di alcol in quegli anni era molto comune. Non solo: era anche un simbolo di stile. Nelle pellicole di Hollywood il consumo di alcolici simboleggia spesso l’opulenza, è associato al fenomeno del gangsterismo, a personaggi problematici o, semplicemente, a dissolutezza e momenti di festa. E c’è spazio, nel cinema muto, anche per gli speakeasy. In queste pellicole è normale vedere personaggi che consumano Martini cocktail, Manhattan, Whisky e Champagne. E alcuni cocktail hanno anche preso il nome di celebrità del cinema: pensiamo al Charlie Chaplin, a base di Gin, Apricot Brandy e succo di lime, o al Mary Pickford, creato con Rum, maraschino, succo di ananas e granatina.
L’avvento del sonoro e del colore
Nel 1927 l’uscita nelle sale di “The Jazz Singer”, di Alan Crosland, interpretato da Al Jolson, sancisce la nascita del sonoro, un’innovazione che cambierà per sempre l’industria del cinema, facendo scomparire, dopo un primo periodo di convivenza, il cinema muto. Il cambiamento è radicale: gli attori devono recitare con la voce e non solo con la mimica facciale, i dialoghi diventano fondamentali, cambia il modo di scrivere e girare le scene, così come quello di produrre la musica di accompagnamento del film, che non è più suonata al pianoforte nel cinema ma viene registrata e riprodotta.
Il lancio del sonoro contribuirà in modo importante anche a far uscire l’industria del cinema dalla crisi innescata dalla Grande Depressione del 1929. L’altra grande innovazione per il cinema è il passaggio dalla pellicola in bianco e nero al colore. Il primo film in technicolor è del 1932: lo produce Walt Disney e si intitola “Flowers and Trees”. Fra gli anni Trenta e Quaranta con il Technicolor si producono film come “Il Mago di Oz” e “Via con il vento”, di Flaming, mentre nel decennio successivo, nonostante l’avvento della televisione sembri minacciare la popolarità delle sale cinematografiche, escono titoli destinati a restare nella storia del cinema, come come “Un Americano a Parigi” di Vincente Minnelli nel 1951 e “Cantando sotto la pioggia” di Stanley Donen e Gene Kelly.
L’alcol torna a essere legale
Con gli anni Trenta finisce anche il proibizionismo. L’alcol torna a essere legale e bar e locali notturni, tornati a operare alla luce del sole, diventano il punto di ritrovo preferito per il jet set del cinema. Los Angeles è il grande palcoscenico della nuova era di Hollywood e nei film i cocktail conquistano ruoli da protagonisti. Sono simbolo di glamour, eleganza e stile. Un esempio su tutti: in “The Thin Man” (L’uomo ombra), film di W.S. Van Dyke del 1934, interpretato da William Powell e Myrna Loy, una delle coppie più amate di Hollywood, il Martini Cocktail è protagonista indiscusso. Proprio dai protagonisti del film, Nick e Nora, prendono il nome le coppette che oggi usiamo per la maggiore per i nostri cocktail. Un altro classico da ricordare è “Casablanca”, pellicola di Michael Curtiz del 1942, i cui protagonisti, Humphrey Bogart, Ingrid Bergman e Paul Henreid sorseggiano Champagne Cocktail e French 75.
I cocktail sul grande schermo

Si potrebbero scrivere pagine e pagine per parlare di cocktail e cinema. In tante pellicole, infatti, i drink hanno avuto ruoli di rilievo o sono stati pro
tagonisti di scene rimaste nella memoria collettiva. Ci sono poi cocktail divenuti icone del grande schermo, che hanno intrecciato la propria storia proprio con quella del film in cui sono comparsi. È il caso del Manhattan nel film del 1959 “A Qualcuno Piace Caldo”, diretto da Billy Wilder e interpretato da Marilyn Monroe, Tony Curtis e Jack Lemmon.
Il White Angel compare invece in “Colazione da Tiffany” del 1961, con la divina Audrey Hepburn, mentre il Banana Daiquiri è protagonista di una delle scene madri de “Il Padrino”: come dimenticare il momento in cui Fredo, il fratello di Michael Corleone, ordina all’Avana un Banana Daiquiri e rivela il suo tradimento?
Il cocktail iconico per eccellenza è però il Martini, le cui sorti sono legate indissolubilmente alle avventure di James Bond in 007. Dice tutto la notorietà della battuta pronunciata dall’agente segreto più famoso al mondo: “shaken, not stirred”. A pronunciarla per la prima volta è Sean Connery in “Licenza di Uccidere”, del 1967, ma la ripeteranno anche Roger Moore, Pierce Brosnan e Daniel Craig. Anche il Vesper Martini è legato alla saga di 007: in questo caso il cocktail fu inventato proprio da Ian Fleming, padre della celebre spia. Questa variante del Martini, che unisce tre parti di Gin, una di Vodka e mezza di Kina Lillet, è citata nel romanzo “Agente 007 Casino Royale”, del 1953. Sul grande schermo, nel film del 2006 diretto da Martin Campbell e interpretato da Daniel Craig, il cocktail è il preferito di Vesper Lynd, l’amata di James Bond. Un ultimo esempio di cocktail legato a uno specifico film è il White Russian, protagonista ne “Il Grande Lebowski” dei fratelli Cohen. Nel film del 1998 interpretato magistralmente da Jeff Bridges si susseguono scene in cui il protagonista si prepara e sorseggia questo cocktail a base di Vodka, Kalhua e panna. Il nostro Drugo, però, lo personalizza: il suo White Russian, infatti, è preparato con il latte.
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