di Andrea Sica | Académie d’Absomphe – Associazione italiana per la tutela dell’Assenzio
Immaginatevi nella Parigi di fine Ottocento, alle cinque del pomeriggio. Quando le ombre si allungavano sui boulevards e le prime luci elettriche iniziavano a tremolare, nei caffè si preparava a un rito quotidiano: l’Heure Verte (oggi tramutata in “happy hour”).
Nei caffè alla moda, le terrazze si riempivano di persone che si concedevano il rituale dell’aperitivo più celebre dell’epoca: l’Assenzio. Dalle cinque alle sette, le terrasse si riempivano di gente, assorta nel chiacchiericcio e nei piccoli rituali da bistrot. L’Assenzio, versato con lentezza rituale nel bicchiere, diventava protagonista di una liturgia urbana condivisa.
Una rivista nel 1894 lo raccontava così: “L’absintheur è un tipo curioso a studiarsi… la preparazione della sua prediletta bibita è un affare di stato. Una bottiglia d’acqua gelata versata a piccole dosi sull’Assenzio per farlo intorbidire gradatamente, formando graziose nuvolette. Gli iniziati chiamano quest’operazione battre l’absinthe”.
“Il parigino non assorbe il suo prediletto distillato come assorbirebbe un bicchier di birra”, continua il cronista d’epoca. “Lo prende con raccoglimento, a dosi omeopatiche, con una certa arte, lentamente; lo gusta, l’assapora, fa godere lungamente la lingua, il palato”. Un rituale che durava a lungo, accompagnato da un buon sigaro e dalla lettura dei giornali serali. In quelle ore artisti, operai, funzionari pubblici e flâneurs condividevano uno spazio che era insieme pubblico e intimo.
Caffè e boulevardier: il teatro dell’Assenzio
Nel 1889, lo scrittore Theodore Child descriveva i caffè parigini come “teatri ininterrotti” dove il francese non andava a bere, ma beveva per poter andare al caffè. Un pretesto, insomma, per occupare un tavolino per ore.
In un momento in cui la vita familiare cambiava e la città si faceva metropoli, il caffè diventava uno spazio sostitutivo dell’intimità domestica: osservare, discutere, mostrarsi.
Socializzare e diventare influenti. Il bar è un posto dove si beve, si fuma, si legge il giornale, si chiacchiera con gli amici e anche dove si gioca. Il boulevardier, protagonista di questa scena urbana, si aggirava tra il Café Tortoni, il Café de Madrid e la Brasserie des Martyrs con l’eleganza studiata di chi sa di essere in vetrina.
Era spesso artista, giornalista o attore. Frequentava i luoghi dove si formavano mode e movimenti, come il Café des Variétés (ritrovo dei Parnassiani), il Café Vachette sul Boulevard Saint-Michel, ritrovo di studenti e aspiranti scrittori, o il Café de la Régence, dove giocava a scacchi perfino Napoleone.
La Fata Verde e gli artisti suoi devoti
Henri de Toulouse-Lautrec è l’Assenziofilo per eccellenza. Nei suoi disegni e quadri l’Assenzio appare come presenza fisica e simbolica: volti scavati, corpi irrigiditi, sguardi perduti che sembrano aggrapparsi al bicchiere come a un’ancora fragile.
Creò anche un cocktail iconico, il Tremblement de Terre: metà Assenzio e metà cognac. Arrivò persino a svuotare il suo bastone da passeggio per usarlo come una fiaschetta e averlo sempre, letteralmente, a portata di mano.
Paul Verlaine e Arthur Rimbaud vissero un amore e un sodalizio artistico segnati dall’Assenzio: bevanda dell’eccesso, della visionarietà, ma anche della distruzione. La loro relazione finì tra le sbarre, dopo che Verlaine sparò a Rimbaud durante una lite.
Verlaine scriverà: “L’Assenzio! […] questo abuso in sé stesso, fonte di follia e di delitti, di idiozie e di vergogna, che i governi dovrebbero se non abolire (e in fondo perché no?) almeno gravare terribilmente di tasse e imposte”.
Una condanna che suona come un’autocritica disperata. Van Gogh, sebbene spesso strumentalizzato nelle narrazioni sull’Assenzio, lo consumava come molti altri, ma non fu l’origine dei suoi tormenti. Piuttosto, la bevanda fu per lui una compagnia nelle sue notti di delirio creativo. I suoi colori esplosi e linee ipnotiche sembrano vibrare come un bicchiere di Assenzio durante l’effetto louche.
Oscar Wilde diceva: “Un bicchiere di Assenzio è poetico quanto qualsiasi cosa. Che differenza c’è tra un bicchiere di Assenzio e un tramonto?” Ma, più francamente, anche: “Non sono mai riuscito ad abituarmi completamente all’Assenzio, ma si adatta così bene al mio stile”.
Degas, con il suo celebre dipinto L’Absinthe del 1876, ritraeva invece il lato più malinconico e alienato del rituale quotidiano: una donna al tavolo, sguardo perso nel vuoto, con accanto un bicchiere velato di verde. Più che una scena di consumo, una fotografia dell’anima urbana. Mallarmé e i simbolisti ne facevano un sacramento laico, una chiave per accedere a una realtà più profonda. Ernest Hemingway ideò il cocktail Death in the Afternoon, Assenzio e champagne: “agitate finché non assume l’opalescenza lattiginosa adeguata”, suggerendo di berlo lentamente.
Estasi e oblio: due volti della stessa città
Tuttavia, dietro il fascino della Belle Époque si nascondeva un problema crescente. Con l’industrializzazione e l’urbanizzazione, l’alcolismo nelle grandi città francesi aveva raggiunto proporzioni allarmanti. L’Assenzio, inizialmente appannaggio della borghesia colta, si era democratizzato, e non sempre in modo positivo. Si divideva in due qualità: gli Absinthe Supérieure, prodotti con standard qualitativi elevati dalle distillerie rinomate, erano i più diffusi e apprezzati. E poi c’erano delle versioni grossolane destinate ai più poveri che, pur rappresentando una minima parte del mercato, avevano conseguenze rumorose. Questi prodotti di sottomarca, infatti, erano composti da oli essenziali scadenti e contenevano solfato di rame per simulare il colore verde: causavano danni alla salute.
La propaganda contro l’Assenzio
La demonizzazione dell’Assenzio non fu casuale, ma il risultato di una convergenza di interessi. Dietro la crociata anti-Assenzio si celavano, infatti, enormi interessi economici. Da una parte, i movimenti moralisti e igienisti identificarono nell’Assenzio il capro espiatorio perfetto per combattere il degrado sociale legato all’alcolismo. Dall’altra, i produttori di vino, in fase di ripresa dalla crisi della fillossera, e molte aziende di spiriti videro nell’Assenzio un temibile concorrente da eliminare.
La Ligue nationale contre l’alcoolisme inondò la Francia di articoli, brochure e petizioni. Una campagna orchestrata che dipingeva l’Assenzio come responsabile di tutti i mali. Si inventò persino il termine “absintismo” per indicare una presunta sindrome tossica legata esclusivamente al consumo di Assenzio. In realtà, i sintomi osservati – tremori, deliri, convulsioni – corrispondono a quelli che oggi riconosciamo come delirium tremens, la fase più grave dell’alcolismo, indipendentemente dal tipo di bevanda assunta. Il medico francese Magnan, nel 1871, condusse esperimenti oggi considerati pseudoscientifici. I risultati, metodologicamente scorretti e privi di rilevanza clinica per il consumo umano, vennero strumentalizzati per alimentare la convinzione che l’Assenzio fosse pericoloso. Il tujone, molecola presente nell’artemisia, venne indicata come responsabile di presunti effetti tossici, benché in realtà fosse contenuta in quantità minime.
Ironicamente, un’inchiesta del 1907 ordinata da Clemenceau, Presidente del Consiglio francese e oppositore dell’Assenzio, per valutare il rapporto tra consumo di Assenzio e disturbi mentali dimostrò il contrario: a Pontarlier, capitale dell’Assenzio, e in altre città, si registrava il più basso tasso di alienazione mentale di Francia. Peggio ancora, l’aumento del consumo di Assenzio si accompagnava a una diminuzione dei reati. Ma questi dati furono ignorati.
La stampa sensazionalista amplificava ogni tragedia collegata all’Assenzio, contribuendo alla sua demonizzazione. Il caso di Jean Lanfray in Svizzera nel 1905 divenne il casus belli perfetto: uccise la moglie e i figli dopo una giornata di eccessi. La stampa attribuì tutto ai due bicchieri di Assenzio bevuti a mezzogiorno, ignorando completamente i 5-6 litri di vino, i bicchieri di cognac, il caffè corretto con Brandy e le Crème de menthe consumate durante la giornata. La demonizzazione dell’Assenzio fu funzionale anche a un progetto di controllo sociale: reprimere i costumi bohémien, ridare centralità ai valori borghesi e cristiani, contrastare i fermenti anarchici, la libertà e l’emancipazione femminile che attraversavano la Francia di fine secolo. L’Assenzio divenne il simbolo di tutto ciò che disturbava l’ordine costituito.
Il bando e la fine di un mondo
Nel 1915, l’Assenzio fu bandito in Francia. La guerra offrì l’occasione perfetta: un Paese in armi non poteva permettersi divagazioni bohémien. Le distillerie chiusero; la Pernod Fils si trasferì in Spagna, dove l’Assenzio non venne mai vietato, e la fabbrica venne trasformata in ospedale militare. Con la Fata Verde se ne andava un pezzo di anima della Belle Époque. Il café restò, ma cambiò volto. Svanirono le atmosfere spensierate dei cabaret, i boulevardier, i rituali lenti che scandivano i pomeriggi parigini. Al loro posto arrivarono i cocktail americani, il pastis, i bistrot moderni.
L’eredità dell’Assenzio oggi
Del fascino dei bistrot di un tempo restano echi lontani: tavolini di ferro, una caraffa d’acqua ghiacciata servita come abitudine sopravvissuta ai decenni. Ma del distillato verde, nel menu, spesso non resta neppure il nome.
Eppure, proprio oggi, in un mondo che corre, potrebbe tornare a insegnarci la lentezza, la presenza, la bellezza di un rito condiviso. Nel suo bicchiere opalescente si nasconde una pausa possibile: estetica, sensoriale, conviviale. Un invito a tornare ad abitare i luoghi, non solo a frequentarli. E a brindare, con consapevolezza, al tempo ritrovato.
A chi lavora dietro il bancone, così come a chi si siede davanti, spetta oggi il compito di restituire all’Assenzio il suo valore: conoscendolo, selezionandolo con cura, e offrendo non solo una bevanda, ma un frammento di storia da vivere e condividere.
La Fata Verde è tornata e può tornare a sedurre. E questa volta, la storia la scriviamo noi.
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